Giornalisti, io vi amo (ma questo amore è una camera a gas)

Questo post è stato scritto dal mio ipotalamo, cervello primitivo che conosce solo due movimenti: attacco e fuga. Quindi declino ogni responsabilità sul suo contenuto. Fate conto che non l’abbia scritto io. Il  fatto che narri le gioie e i dolori di un ufficio stampa è puramente casuale.

Mi chiama un giornalista.

Chiede un’intervista con l’amministratore delegato.

No, in effetti non la chiede: la annuncia, certo della risposta affermativa.

Del resto si tratta di un’intervista all’interno di uno speciale che la testata (nazionale, e l’aggettivo è ripetuto e rimarcato più volte, con ammirevole alterigia) dedica alle aziende locali.

Scadenza: lo speciale deve essere chiuso in due giorni, anche se andrà in edicola tra tre settimane. Tema: strategie e progetti a lungo termine.

Faccio presente che l’AD è molto impegnato, il preavviso è poco per la sua agenda, e potrebbe già per questo essere difficile riuscire a organizzare il tutto.
Altre difficoltà sono legate al fatto che stiamo preparando per metà marzo la conferenza stampa con i dati di bilancio e le prospettive di sviluppo dell’azienda, e un’uscita del genere, proprio pochi giorni prima, potrebbe “bruciare” una parte dei contenuti e penalizzare le altre testate.

La prende sul personale, e si scalda subito. “E’ impossibile che io non riesca a parlare con un amministratore delegato, è inaudito, è assurdo!“.
Il sottinteso è: state censurando la libera informazione. Io ci percepisco anche un retrogusto da “e ve ne pentirete amaramente”.

Il signore sa come rendersi simpatico, ma cerco di non farmi condizionare (il mio ipotalamo mi consiglierebbe di sbattere giù il telefono con un ruggito). Gli dico che verificherò comunque la disponibilità dell’AD.
Riesco a farlo soltanto nel primo pomeriggio, e ottengo esattamente le risposte che mi aspettavo: troppo poco preavviso, e volontà di non anticipare i contenuti della conferenza stampa. Non è cronaca, non abbiamo “urgenza” di comunicare queste cose, e preferiamo comunicarle bene.

Informo il giornalista, peraltro invitandolo all’evento e chiedendogli se sia possibile posticipare l’intervista.
Apriti cielo.
Il Premio Pulitzer che è in lui s’indigna come se mi chiamassi Richard Nixon e stessi occultando le prove del Watergate.

Il mio ipotalamo minaccia di prendere possesso di tutta me, riesco a fatica a riportarlo alla preistoria a cui appartiene, e cerco di interagire facendo sfoggio di tutta la buona educazione che i miei genitori mi hanno insegnato, e più pazienza di quanta in realtà me ne abbia lasciata il resto della giornata lavorativa.

Lui prova a fare pressione, in maniera piuttosto fastidiosa, e ho la sensazione che mi consideri molto più giovane di quanto sono (quel tono di voce dall’alto in basso, autoritario e autocentrato…).
Mentalmente decido di prenderlo come un complimento: fraintendere è un’arte che conviene padroneggiare, per amor di pace.

Ad un certo punto, arriva la perla:

“Ma se non riesco a parlare con l’amministratore delegato, come faccio a fargli dire quello che voglio fargli dire?”

Mi prendo qualche istante. L’ipotalamo comincia a fare le fusa, piuttosto minacciosamente. Lo ricaccio indietro, e con molta calma replico:

Quello che vuole fargli dire? … mi aiuti a capire: lei è interessato a quello che potremmo raccontarle, oppure vuole mettere in bocca all’amministratore delegato le sue parole?

I primi due secondi di silenzio dall’inizio della telefonata. Peccato che finiscano.
Il Marty Baron nostrano si ripiglia immediatamente, e mi impartisce con convinzione la lezione “Giornalismo per dummies nr.1”.

“Mi segua…”
“Non chiedo di meglio”
“Io faccio le domande, no?”
“Mi pare corretto, e più che legittimo: è il suo mestiere”
“Uno mi risponde, e si suppone che mi dica la verità”
“Sì, in effetti tendiamo a farlo, è sempre l’opzione migliore”
“Allora io gli faccio un’altra domanda, e poi un’altra, e un’altra ancora, finché non ottengo quello che voglio sentirmi dire”.

Ah.
Mi pare un ottimo presupposto.
Così convincente che persino l’ipotalamo rinuncia ad incazzarsi.

E io decido di terminare questa istruttiva conversazione, facendomi lasciare l’indirizzo e-mail per mandare tutti i nostri comunicati e l’invito alla conferenza stampa.

“Adesso parlerò con la direzione, ma non credo che verremo. Con la vostra azienda abbiamo chiuso”.

Non riesco a disperarmi per questo: per quanto mi riguarda, anche sottovalutare le minacce è un’arte utile da imparare e mettere da parte.

(Mi piacerebbe poter raccontare che questo è stato l’epilogo, seguito soltanto da una buona cena e una tranquilla notte di sonno.

Invece Marty Baron, per altre vie – traverse, ma sicuramente piastrellate dall’esasperazione del suo interlocutore – è riuscito a procurarsi il numero diretto dell’AD. Che gli ha ripetuto esattamente quello che gli avevo detto io. Però mi ha chiesto di vederci domattina, per trovare qualche altra cosa da raccontare all’agguerrito professionista.

Giornalisti, io vi amo. Ma a volte questo amore è una camera a gas).

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2 pensieri su “Giornalisti, io vi amo (ma questo amore è una camera a gas)

  1. Perchè, nel tuo racconto immaginarcontinui a chiamare questo tizio “giornalista”? Questo è il tipico esempio di “scribacchino”. I giornalisti sono un’ altra cosa. Cosa rara, purtroppo.

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    1. Ne ho trovati e ne trovo tanti di in gamba, in realtà, e magari lo è anche questo, quando deve scrivere di qualcosa che lo interessa davvero. Ma mentre lo ascoltavo, avevo più che altro l’impressione che dovesse scrivere un pezzo di cronaca nera, non di economia e impresa.
      Va anche detto che la vita dei freelance è dura: magari non è il caso del mio amico qui, ma un pezzo viene pagato 6-7 euro … quando ti va bene.

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