Donne du du du

Donne du du du

La prima cosa che ho fatto, stamattina, è stata rompere lo schermo del mio iPhone.

Mi è dispiaciuto doppiamente: perché sostituire lo schermo di un iPhone con un pezzo originale significa impegnarsi mezzo rene, e perché immagino che il mio cellulare sia uno dei tre o forse quattro modelli SE (stesse dimensioni di un iPhone 5 e funzionalità dell’iPhone 6) che Apple ha venduto in Italia. Praticamente stamattina ho dato il colpo di grazia a una specie in estinzione.

Per quanto mi sia sforzata di considerare la cosa razionalmente (bottom line del mio dialogo interiore: “Hai le mani di ricotta, fai più attenzione la prossima volta. E rimetti quella dannata cover”), la mia parte emotiva ha considerato questo incidente come un pessimo presagio per il resto della giornata.

Quanto mi sbagliavo.

Ricorderò questa giornata (almeno fin qui, sono le 17 e qualche spicciolo quando inizio a scrivere) come una giornata di incontri con donne che avevano qualcosa da dire o da ricordare alla mia vita.

Qualcosa di non banale.

La prima è stata A.

A. avrà al massimo venticinque anni, e lavora come parrucchiera in un prestigioso salone all’interno di un centro commerciale.

Ora: per me andare dal parrucchiere è piacevole più o meno quanto sedermi sulla poltrona del dentista. Vado quando sono proprio costretta, e una spaventosa ricrescita bianca mi ha costretta a farlo proprio stamattina.

Fortunatamente non c’erano ancora molti clienti, e A. – dopo essersi presentata e avermi chiesto di cosa avessi bisogno – mi ha fatta subito accomodare. Ho apprezzato assai che non mi abbia costretta a chiaccherare, ma a un certo punto abbiamo iniziato a farlo spontaneamente, partendo dalla vistosa fasciatura che portava al polso: tendinite, tutt’altro che rara per i parrucchieri.

Abbiamo cominciato a parlare delle gioie e dei dolori professionali, e A. mi ha raccontato parte della sua storia.

Qualche anno fa lavorava per il salone dove ci siamo incontrate, e lavorava bene. Così bene che l’autonomia e le responsabilità crescevano di giorno in giorno – non altrettanto lo stipendio.

Con l’intransigente senso di giustizia della gioventù, ha chiesto un aumento.

Nel gioco della contrattazione, le è stato proposto un aumento insoddisfacente.

Con l’intransigente senso di giustizia della gioventù (benedetti ragazzi!), A. ha rifiutato ed è andata a lavorare in un altro negozio.

Ha resistito un anno e mezzo: “Avevo già parecchia esperienza, ma la titolare non si fidava, controllava sempre il mio lavoro, e se proponevo qualcosa diceva ‘sei troppo giovane’. Venivo da un salone dove si fa molta formazione, mentre qui continuavano a usare tecniche superate, e nessuno poteva metterle in discussione. Io sapevo fare tante cose nuove, e mi sono offerta di farle, ma non me l’hanno mai consentito“.

Con le forbici, però, la titolare era più brava di lei: “Ho chiesto che mi facesse vedere come lavorava, che mi supervisionasse mentre io tagliavo i capelli di mie amiche che si erano offerte come cavie. Non l’ha mai fatto. Io volevo migliorare, mica portarle via il lavoro.”

Per fortuna, i rapporti con il precedente salone erano rimasti buoni, e A. ha potuto tornare a lavorare lì, dove l’ho incontrata oggi.

La storia professionale di A. mi ha ricordato un TED Talk di una decina d’anni fa, in cui Dan Pink spiega il “sorprendente rebus della motivazione“.

Il denaro funziona come motivazione? In parte, ma una volta raggiunta una retribuzione percepita come “giusta”, più soldi non producono più impegno e più risultati, anzi spesso accade il contrario.

Quello che motiva le persone, secondo Pink, sono tre fattori: autonomy, mastery, purpose.

Autonomia. Padronanza. Scopo.

“Autonomia” è la possibilità di prendere decisioni su modalità, tempi, strumenti e processi con cui arrivare al risultato. Comprensibile la sofferenza di A.: “La titolare non si fidava, controllava sempre il mio lavoro“.

“Padronanza” è la possibilità di diventare sempre più bravi, sfidando anche i propri limiti. E anche qui, povera A.: “Ho chiesto che mi facesse vedere come lavoravavolevo solo migliorare, mica portarle via il lavoro“.

“Scopo” è vedere il significato di quello che si fa, e soprattutto avere la possibilità di attribuire un senso più alto alle proprie azioni, professionali e non solo, e di dare il proprio contributo al mondo.

Se la conversazione con A. fosse continuata, sono certa che avrebbe raggiunto anche questo punto, ma i miei capelli erano a posto prima che ci arrivassimo.

E così, mentre sedevo sulla poltrona di un parrucchiere, confrontandomi con una ragazza che avrebbe potuto essere mia figlia, ho sentito che non eravamo poi così diverse, e che la storia che mi stava raccontando avrebbe potuto essere la mia.

La seconda è stata B.

Conosco B. da quando avevamo 14 anni: abbiamo fatto le superiori insieme, in una classe di trentun ragazze restate in felice contatto fino a oggi. Come il buon vino e le donne in gamba, siamo tutte migliorate invecchiando.

Ci siamo incontrate a pranzo, al ristorante indiano, per discutere varie ed eventuali – e davvero la conversazione si è allargata (e approfondita) ben oltre le previsioni. Hanno praticamente dovuto cacciarci dal locale (con una gentilezza rara, preciso).

B. è una donna straordinaria, fin dalle sue radici: è perfettamente bilingue, metà italiana e metà svedese… o meglio: è completamente italiana e completamente svedese – alchimia potentissima. è molto bella, lo è sempre stata: espansiva e solare, ha un sorriso così luminoso che riallinea il cosmo. E fa mille cose, tutte significative. Non smette mai di curiosare e di mettersi in discussione.

Non sono mai stata una persona invidiosa, ma B. è una di quelle amiche che mi ha fatto pensare, da ragazza e non solo: vorrei essere come lei. Mi pareva così forte e libera, così sicura di sé e così femminile.

Ma oggi, mentre chiaccheravamo, questa donna bella e vera se ne esce con: “Ero un maschiaccio, non mi sentivo per niente femminile“.

Calma. Quella che non si sentiva per niente femminile ero io, bella. Quella che covava insicurezze sul proprio aspetto e sul proprio posto nel mondo ero io, mentre tu eri la … diamine, tu eri la bomba sexy della classe!

E invece no: non ci univano soltanto l’amicizia e le mura di scuola – ci univa anche un’insicurezza simile. Che nessuna sospettava nell’altra, oltretutto: “Ti vedevo più introversa che estroversa – mi ha detto B. – ma non avrei mai immaginato che fossi timida come mi stai dicendo: per me eri serena e sicura di te“.

E così, tra le tante preziose cose di cui abbiamo discusso oggi, B. mi ha ricordato un paio di cose importanti.

La prima è che non possiamo mai dare per scontato cosa si portano dentro l’anima le altre persone. Anche quando pensiamo di conoscerle bene.

La seconda è che non sbagliamo mai di molto se attribuiamo agli altri le nostre stesse fragilità e i nostri stessi desideri.

La terza è stata G.

I commiati tra donne sanno prolungarsi in misura irraggiungibile per gli uomini. E così B. e io stavamo continuando la nostra conversazione fuori dal ristorante indiano, quando un clamore ci ha fatte girare verso le strisce pedonali alle nostre spalle.

Una signora era caduta mentre stava attraversando. Ora era in ginocchio in mezzo alla strada e non riusciva a muoversi.

Siamo accorse per aiutarla a rialzarsi e a raggiungere un tavolino con sedie vicino all’ingresso del ristorante ormai chiuso. Abbiamo bussato per farci dare un bicchiere d’acqua, e un cameriere gentilissimo ce l’ha portato prima di andare via.

Agitata e imbarazzata, la signora lamentava dolori alla spalla: “Spero di non essermi rotta niente…

Vuole che chiamiamo qualcuno, signora?

Vivo da sola e non ho parenti vicino…

Qualche amica?

La mia amica non sta bene di salute…

Alla fine abbiamo chiamato l’ambulanza e, in attesa che arrivasse, abbiamo trascorso una mezz’oretta a far compagnia alla signora infortunata.

E così abbiamo scoperto che G., settantadue anni ben portati, viveva in Campo San Tomà a Venezia, e si è trasferita pochi anni fa a Mestre.

Nessun veneziano digerisce bene il trasferimento, volontario o forzato, in terraferma – e G. non fa eccezione: pareva che sotto sotto ritenesse la città direttamente responsabile del suo incidente.

I veneziani passano una vita a scavalcare ponti e affrontare traghetti e gondole senza la minima incertezza, ma oltre il Ponte della Libertà, a camminare costantemente in piano e sul solido, diventano come il gabbiano che arranca sul ponte della nave nella poesia di Baudelaire. E inciampano.

In un certo senso G. mi è sembrata una profuga, e non solo come veneziana strappata alla sua città. Era in forma, e si capisce che è una donna che, una volta rimessa dallo spavento e dal danno per questa caduta, riprenderà una vita energica e piena d’impegni.

Però vive sola, in una città che non sente sua, e in cui a quanto pare non ha ancora stretto dei legami.

Era stranita dall’aver trovato due persone che si sono sedute accanto a lei durante questa piccola (speriamo) bufera: “Però alla fine si trova sempre qualche angelo…“.

La solitudine di G. mi ha dato da pensare.

A tutte quelle solitudini che nemmeno intuiamo. E a quelle che ignoriamo, pur vedendole.

Al fatto che non è detto che chi ci sta vicino oggi sia a portata di mano anche domani.

A quanto importante sia, a qualsiasi età, essere inseriti in una rete di relazioni. Fare networking per l’anima. E contro i reumatismi.

E a quanto vitale sia seminare un po’ di gentilezza reciproca, in questo nostro mondo acciaccato.